#7/2023 Cosa è la sostenibilità strategica - Parte III

#7/2023 Cosa è la sostenibilità strategica - Parte III

Segue - II parte - giovedì 26 ottobre

Come già accennato diffusamente nei due precedenti articoli il greenwashing è la pratica da evitare per non rischiare di perdere il treno della sostenibilità strategica e tutto ciò che essa porta con se, compresa quella reputazione oggi ancora più rilevante rispetto al passato pre-internet.

Quindi, sorge spontanea la domanda: oggi è possibile non fare sostenibilità strategica? La risposta è breve e quantomai semplice: no.

Per sostanziare questo punto giova quindi spostare il focus sui rischi che si presentano in assenza di un processo di sostenibilità per come lo abbiamo descritto (criteri ESG collegati a loro volta agli SDGs).

Tali rischi rientrano nel più ampio tema del Risk management che è volto anch'esso alla crescita valoriale di un'azienda, se valutato con una visione molto più ampia rispetto ai rischi precipui e diretti dell'attività di impresa.

I rischi della non sostenibilità sono molteplici, alcuni visibili e dichiarati, altri meno e per questo maggiormente pericolosi. Necessitiamo, quindi, di una capacità di analisi prospettica sostenuta dalla informazione e formazione costante su temi d'impresa connessi.

Primo rischio evidente è l'accesso al credito per gli operatori economici che non avranno determinato delle strategie d'impresa collegate agli ESG e che avranno difficoltà a dialogare con banche, fondi d'investimento e finanziatori in genere. Appare chiaro che la stretta creditizia, già in atto da qualche anno con i vari Accordi di Basilea con la finalità di rendere maggiormente stabile la moneta e la finanza, non potrà che inasprirsi verso un'azienda che non si allinei, o peggio non abbia intenzione di farlo, ai criteri guida della sostenibilità. 

Il perché siamo arrivati a questo punto riguarda lo sviluppo del sistema capitalistico e la finanza e bisognerà risalire ad una data chiave, quella del 15 settembre 2008, quando la nota banca d'affari americana Lehman Brothers chiuse i battenti, dal giorno alla notte, fallendo.

Fino a quel giorno il sistema capitalistico, come lo avevamo conosciuto, aveva vissuto di tre macro-fasi: pre -'900, da inizio '900 fino agli anni '70 - passando dal 24 ottobre 1929 (conosciuto anche come il Giovedì nero o la Grande depressione) - e dagli anni '70 fino appunto al 2008. E' soprattutto nella terza fase che avviene la separazione tra finanza ed impresa e il ceto manageriale si trova difronte ad un nuovo obiettivo: rispondere alla massimizzazione del capitale investito dagli operatori del settore. La finanza, quindi, prende il sopravvento sull'economia reale e di conseguenza il settore economico-produttivo cerca di riequilibrare ciò che, di fatto, era divenuto tossico (pensiamo al problema dei derivati).

Arriva quindi la sostenibilità.

Si spiega così il perché si è arrivati alla stretta dei finanziamenti quando le imprese non sono in linea con i criteri ESG.

Di conseguenza era altresì inevitabile che il sistema normativo non si adeguasse al trend. Come già accennato in precedenza, a partire dalle società quotate in Borsa, le grandi aziende fino alle PMI, ossatura della nostra economia, le imprese dovranno rispettare la cosiddetta compliance normativa per non perdere certificazioni, licenze, autorizzazioni che permettono di stare sul mercato in modo competitivo. Qui il rischio è, come spesso accede in Italia, che ci sia un risveglio collettivo quasi fuori tempo massimo per organizzarsi e quindi le figure professionali, vedi legali piuttosto che amministrativi, che verranno chiamate a fare uno sforzo per far rispettare quanto normativamente verrà stabilito non potranno che eseguire un lavoro, per quanto tecnicamente corretto ma a rischio greenwashing inconsapevole, lontano da quell'idea di strategia che dovrebbe accompagnare un processo di sostenibilità.

Terzo rischio rilevante, di natura esogena, è che il rispetto delle norme, per quanto non sarà rivolto al 100% del tessuto imprenditoriale, rende occulto un ragionamento extra-giudiziale tutt'altro che banale.

Infatti le grandi strutture, spesso, hanno una filiera produttiva composta da aziende molto più piccole, fino a livello micro, che generano valore nella loro catena e che saranno in difficoltà, talvolta organizzative e talvolta culturali, nell'adeguarsi alla sostenibilità così intesa. E questo potrebbe far perder di competitività le stesse grandi aziende, competitività data da quell'eccellenza e quell'artigianalità dei prodotti forniti che ci contraddistingue e che rende il Made in Italy un asset intangibile da tutelare. Per non parlare del destino che attenderebbe quelle imprese, fautrici del plus, che vedrebbero la loro opera esclusa dai tavoli che contano con il concreto rischio di chiusura di attività e con le conseguenze del caso, valutabili anche come impatto sulla nostra già fragile economia.

Di conseguenza stimolare un ragionamento sulla sostenibilità strategica è utile anche alle Istituzioni che si occupano dello sviluppo economico della Nazione per non lasciare l'Italia indietro su un fenomeno di natura globale.

Segue - IV parte - giovedì 9 novembre 

Lascia un commento